Cronometri da marina per il calcolo della longitudine

“La longitudine si è manifestata a me per rivelazione divina epperciò mi è stato impossibile tramandarne il segreto ai posteri”.
In queste parole pronunciate sul letto di morte da Sebastiano Caboto, navigatore italiano al servizio della Corona inglese, aleggia quell’aura di riverente superstizione che circondava ciò che all’epoca era considerato un enigma per i naviganti, una sfida per gli scienziati, un ostacolo per le mire espansionistiche dei re: il mistero della longitudine.

Fin dagli albori della navigazione l’uomo aveva imparato a servirsi di strumenti per misurare l’altezza apparente delle stelle e determinare così la latitudine. La longitudine, però, restava un segreto della natura tanto gelosamente custodito da caricarsi inevitabilmente di un rilievo magico. Esistevano, è vero, alcuni metodi per calcolare la longitudine per mezzo dell’osservazione contemporanea di vari corpi celesti, ma nessuno di questi era praticabile con sufficiente precisione dal ponte di una nave in movimento.

Eppure, fin dal 1530, lo scienziato olandese Rainer Gemma Frisius aveva indicato la direzione giusta per risolvere questo problema: se una nave avesse potuto avere a bordo un orologio di precisione, il confronto fra l’ora di un meridiano di riferimento, indicata dall’orologio di riferimento, e l’ora locale, desunta dal rilevamento astronomico, avrebbe fornito con facili calcoli la tanto sospirata longitudine.

Ma nel 1530 parlare di precisione riferita ad un orologio poteva sembrare un controsenso: anche i migliori orologi da torre avevano una tolleranza di alcuni minuti al giorno, più che sufficienti per mettere fuori rotta il più esperto dei capitani. Un minuto di tempo equivale, infatti, ad una distanza sull’equatore di circa 15 miglia marine e, considerando che i tempi di una traversata atlantica erano, allora, di 5-6 settimane, ne sarebbe conseguito un errore finale di 600 miglia.

Il primo passo verso la soluzione del problema della longitudine era dunque legato al perfezionamento dell’orologio, e a ciò si dedicarono con tutta l’anima i più valenti scienziati ed i più esperti tecnici dell’epoca.

Fu Christian Huygens nel 1656 ad intuire le possibilità legate all’isocronismo del pendolo, scoperto da Galileo Galilei, e ad applicarle con successo agli orologi, riducendo drasticamente il margine di errore fino a 10-15 secondi al giorno. Ma il pendolo, con il suo pur grande pontenziale di precisione, non è adatto ad un uso navale perchè ha bisogno di assoluta stabilità, per una buona “performance”. Se ne rese conto anche Huygens quando, nel 1660, sperimentò il primo cronografo navale della storia. Fu un fiasco clamoroso e l’idea di utilizzare il pendolo come oscillatore negli orologi da marina fu scartata per sempre.

Qualche anno più tardi per merito dell’inglese Robert Hooke (ma anche Huygens ne rivendica la paternità) fu concepito il bilanciere a molla: una sottilissima molla avvolta a spirale e attaccata al bilanciere, formante con quest’ultimo un sistema oscillante. Si era ben lontani da una oscillazione isocrona come quella del pendolo, ma il nuovo sistema aveva l’importante vantaggio di essere sufficientemente insensibile  ai mutamenti di posizione e quindi adatto al trasporto su nave.

Siamo ormai all’inizio del Settecento e l’Inghilterra, che più di ogni altra nazione ambiva al predominio dei mari, decideva di incentivare le ricerche sulla longitudine con il famoso “Longitude Act” del 1714. Con esso si offriva un premio di 20.000 sterline (pari all’equivalente di diversi milioni di euro) a chi fosse stato in grado, in un viaggio dalla costa inglese alle Antille, di determinare la longitudine con un errore inferiore a mezzo grado. Tradotto in termini di precisione ciò voleva dire, in un viaggio di circa 6 settimane, uno scarto inferiore ai 3 secondi al giorno.

L’impresa non sembrava impossibile, soprattutto considerando la più che generosa ricompensa offerta, eppure doveva trascorrere ancora mezzo secolo prima che i requisiti del “Longitude Act” fossero soddisfatti dall’inglese John Harrison.

Questi era un carpentiere di un piccolo villaggio nella contea di York, con cognizioni generiche di meccanica e di matematica, ma dotato di notevole ingegnosità e di grande immaginazione tecnica. Ne è prova il suo cronometro N. 4, quello che superò il test del “Longitude Board”, e che oggi si può ammirare, ancora funzionante, al National Maritime Museum di Greenwich.

Il cronometro da tasca N. 4 di John Harrison, che ha rispettato i requisiti del Longitude Act
Il cronometro da tasca N. 4 di John Harrison, che ha rispettato i requisiti del Longitude Act

In apparenza un grosso orologio da tasca di 13 centimetri di diametro, l’Harrison N. 4 dimostra come sia possibile, con raffinati accorgimenti tecnici, costringere un meccanismo concettualmente scadente a funzionare in modo superlativo. Infatti Harrison, pur intuendo la necessità di isolare quanto più possibile l’oscillazione del bilanciere dalle irregolarità meccaniche dei ruotismi, si servì ancora dello scappamento a verga, realizzato però con una genialità senza precedenti. La regolarità della forza motrice era assicurata da un sistema a “remontoir”; l’attrito era dirotto al minimo grazie all’uso di perni ruotanti su rubini; le variazioni di temperatura erano corrette da un freno bimetallico collocato sul bilanciere e perfino le levette della verga erano realizzate in diamante , con un sofisticato profilo cicloidale.

Così complessa era la costruzione di questo capolavoro che Larcum Kendall, orologiaio londinese cui il “Longitude Board” affidò il compito di duplicare l’Harrison N.4, chiese e ottenne la somma di 450 sterline (oltre 200 mila euro) per portare a termine la difficile impresa.

Singolare è il destino di questo Kendall, un outsider che ebbe la ventura di legare il suo nome a quello di due celeberrimi capitani inglesi. Infatti la sua copia dell’Harrison N. 4, a bordo della “Resolution” di James Cook, si comportò impeccabilmente durante il suo secondo, lunghissimo, viaggio di esplorazione, mentre un altro suo orologio, imbarcato sul “Bounty” del Capitano Bligh, sopravvisse al famoso ammutinamento del 1789 e fu riportato in patria nel 1843.

Nella storia della cronometria navale l’Harrison N. 4, per il suo costo altissimo e per la complessità della sua realizzazione, rimane dunque un esempio isolato, il cui unico, importantissimo merito è quello di aver dimostrato che l’obiettivo poteva essere raggiunto.

Ma la vera rivoluzione in questo campo doveva aver luogo qualche anno più tardi, nel 1766, per opera del francese Pierre Le Roy. Al suo nome è legato, infatti, il primo tipo di scappamento a scatto (“détente”, in francese), che permetteva l’oscillazione pressochè libera del bilanciere. Il suo cronometro da marina, sperimentato in navigazione con risultati analoghi a quello di Harrison, incorporava, oltre al nuovo tipo di scappamento, due altre caratteristiche tecniche che sono rintracciabili in tutti i cronometri moderni: il bilanciere compensato per le variazioni di temperatura e una molla a spirale capace di garantire oscillazione isocrone.

L'esemplare di orologio da marina di Le Roy n. 1252
L’esemplare di orologio da marina di Le Roy n. 1252

Questi tre dispositivi furono migliorati negli anni successivi dagli inglesi Thomas Earnshaw e John Arnold. Lo scappamento a scatto con perno di Le Roy prese la forma del più valido sistema a scatto con molla di Earnshaw; il bilanciere compensato ad alcool e mercurio del francese fu semplificato da Earnshaw laminando ottone e acciaio in modo da ottenere il classico cerchio bimetallico; infine le due spirali piane del bilanciere di Le Roy vennero rimpiazzate dalla spirale cilindrica ideata da Arnold.

Ma queste non sono altro che modifiche di tipo funzionale, che nulla sottraggono al genio creativo di Pierre Le Roy, le cui idee innovative gettarono le basi per lo sviluppo su scala industriale del cronometro da marina. Poichè questo, al di là delle dispute tra inventori, era il traguardo ultimo cui miravano tecnici e scienziati: una produzione in serie di strumenti affidabili, in grado di perfezionare l’arte della navigazione e di rendere sicure le vie degli oceani.

Il resto è storia dei nostri giorni. La rivoluzione del quarzo ha permesso la costruzione di cronometri da marina incredibilmente precisi, rendendo di colpo obsoleti anche i migliori regolatori meccanici. I satelliti geostazionari permettono oggi, con l’aiuto del computer di bordo, di stabilire la posizione di una nave con un errore di pochi metri, superando così le difficoltà del rilevamento ottico. Infine gli orologi atomici, con la loro tolleranza inferiore a un secondo ogni 1000 anni, hanno costretto gli scienziati a ridefinire completamente il concetto di unità di tempo. G.P.S., smartphones, Internet sono oggi responsabili di una ulteriore rivoluzione: gli orologi ottici, che tramite la tecnologia laser permettono la sincronizzazione (e quindi la localizzazione) fino al miliardesimo di secondo (e quindi ai metri e centimetri, ben oltre le miglia nautiche)… ma questa è un’altra storia.

Carta di Waldseemuller del 1507
Carta di Waldseemuller del 1507
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